Come templi distrutti durante la battaglia, così cadono alla pari quelle istituzioni che dovrebbero assicurare la sopravvivenza dell’Arte. Non più luoghi di culto e di diffusione della sapienza ma are pagane e “circoli” presso le quali incendiare gli animi dei proseliti e dei baccanti aggiogati al tirso; il contatto con la divinità s’interrompe, e a noi rimangono soltanto indugi e sgomento nell’apprendere che la barca carica di innovazioni e mutamenti, diverge verso una sponda in cui si gonfia di marciume e detriti. Quegli eroi, armati di calamaio e foglio bianco, deputati alla salvezza del mondo e collocati oltre un mero mito estetico, sono stati confinati su un’isola, a scontare la loro pena in un esilio forzato.
S’incatena così l’estro e la valenza dell’artista a un brusco risveglio altresì a un crepuscolare stato di veglia, perché egli contempli ed assista, inerme, al disfacimento di quelle fondamenta sopra descritte, contese tra i giochi tirannici di coloro che detengono il potere e il comando; un comando, sì questo, che non possiede corona e bastone ma l’invisibilità dell’inganno. La nostra barca, alla quale hanno tolto le reti e l’àncora per non permetterle nessuna salvezza, adesso vacilla e ondeggia nella tempesta generata da due forze in gioco: quella dei critici e l’altra dei falsi editori che fanno la fama e la disfatta dell’artista, al pari del potere destinale delle tre Parche.L’imperversare di continue parole profetiche di sterile ciarlataneria, espresse in profuse recensioni e critiche incantatorie che ritrovano il loro paradiso iperboreo soltanto nelle ragioni del denaro, alimentano l’agonia e l’insoddisfazione del vero artista, confinato nei meandri oscuri di un Limbo, per lui scelto con dovizia e cura. L’illusorietà della possessione dell’Arte ha trovato qui in Italia la propria dimensione arcadica, dove la maggior parte dei creativi può fare arte con la semplice raccolta spontanea di un frutto dal verde arbusto, senza sforzo e senza consapevolezza alcuna. Un luogo incantato in cui il frutto proibito del peccato originale assume la forma di prerequisito per una vita all’insegna dell’arroganza e della banalità; un posto in cui il riflesso di uno stagno assurge a simbolo non di narcisistica ricerca estetica, sì di positiva valenza, ma di morte ninfale al pari del relativo mito greco, una vetrina trasparente sulla quale bestemmiare e denigrare la stessa divinità Arte con auto elogi e pratiche esotiche. Coloro che si sono già risvegliati, assistono al crollo di babeliche torri come tanti castelli in aria, poiché così flebili sono le fondamenta che costituiscono tali strutture ideologiche. Uno dopo l’altro, i mattoni si susseguono procedendo per moto inverso, destrutturando ciò che sarebbe dovuta diventare per eccellenza la torre d’avorio di ogni artista e che adesso ha solo le fattezze di una antica rovina.
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