Pagine

martedì 23 ottobre 2012

Memoria storica romana in Basilicata. La Casa del Diavolo

di Annalisa Signore

A pochi chilometri dal centro urbano di Lavello, in provincia di Potenza, si trova un sito archeologico di straordinario valore. Un rudere e i resti superstiti di un consistente complesso antico situati su un’ansa coronata di ulivi nella contrada San Francesco. Questa zona strategica, tra i corsi d’acqua Olivento, Ofanto e il Monte Vulture, fu teatro di un susseguirsi di attestazioni dall’età del Bronzo medio (XVI secolo a.C.) all’età Imperiale romana e può risultare essenziale per comprendere la civiltà delle genti che si sono insediate nel territorio. La vicinanza delle vie Appia e Erculeia garantiva, invece, i collegamenti via terra.
La denominazione «Casa del Diavolo», da ricondurre all’epoca medievale e alla suggestione popolare, è dovuta forse al rosso dei laterizi che costituiscono la struttura e agli effetti dati dai raggi solari al tramonto che attraversando le fessure presenti nell’edificio creavano l’illusione delle fiamme e quindi di un luogo dal profilo empio ed inquietante. La costruzione è databile intorno alla fine del III secolo d.C. ed è considerata la più rilevante testimonianza archeologica romana del territorio lavellese. Probabilmente si tratta di una villa patrizia di discrete dimensioni. A sostegno di ciò gli studi dell’illustre archeologo Dino Adamesteanu secondo cui nel tardo periodo romano sorgono nella zona anche le sontuose villae, come a Malvaccaro nei pressi di Potenza, le grosse edificazioni agricole di S. Giovanni di Cataldo nell’agro di Bella (PZ) o le altre, ancora, nelle frazione di Gaudiano (Lavello) e nella contrada di Cervarezza a Banzi (PZ). La presenza di una fattoria ben si inserisce in una zona di evidente connotazione agricola, qual è l’agro lavellese. Inoltre, il ritrovamento di numerosi cocci e frammenti di doli e olle con base a punta, impiegati come contenitori di derrate, sembra invalidare eventuali riserve sulla presenza di una fattoria appartenente ad una famiglia abbiente dedita all’agricoltura, attorno a cui si doveva presumibilmente muovere una cospicua macchina produttiva e lavorativa.
Resta purtroppo ignota l’appartenenza della villa soprannominata «Casa del Diavolo», nonostante il ritrovamento di tre epigrafi nelle vicinanze dell’area interessata. Nel Medioevo l’edificio viene reimpiegato come luogo di culto cristiano e, secondo catasto, schedato come «CHIESA DIRUTA». In seguito abbandonata, pur avendo subìto nel corso dei secoli l’azione invasiva dei fattori climatici e l’incuria umana, per la sua posizione di relativo isolamento si erge ad oggi come traccia consistente e di grande interesse.
Le evidenze archeologiche e i resti delle strutture occupano un’area di circa 40 per 50 m, ma si può supporre un’estensione totale maggiore. Gli edifici visibili presentano varie fasi architettoniche e diverse tecniche edilizie, con muri in pietra e laterizi. La parte principale è costituita da resti di un impianto termale di cui s’individuano i vari ambienti. Un corridoio, costeggiando sul lato orientale un corpo di fabbrica in laterizi quasi del tutto conservato, immette in un ambiente mosaicato (probabilmente un apodyterium): da questo si può accedere verso nord a due piccole vasche affiancate (frigidarium) e a sud in un grande ambiente voltato in laterizi (calidarium). Nell’angolo nord-ovest del complesso, si riconoscono le strutture di un “forno” per il riscaldamento dell’acqua e della sala calda, con una cisterna annessa sul lato ovest dell’edificio. Subito a est e nord-est delle terme si susseguono vari ambienti (si nota anche la presenza di lacerti pavimentali in opus spicatum), tra cui spiccano una latrina e alcuni vani probabilmente destinati ad uso produttivo, data la presenza di alcuni dolia. Lo spargimento sul terreno dei resti, del materiale da costruzione e della ceramica lascia supporre la presenza di un notevole costruzione. La posizione sulla sommità di una collina dominante tutta la piana del melfese e le caratteristiche morfologico/topografiche della zona sembrano confermare l’importanza del complesso archeologico e il fascino del sito in vista di un futuro recupero o ripresa delle ricerche.
Nel giugno del 1998 sono stati avviati dei lavori di scavo del complesso della villa. L’area archeologica visibile, non recintata, è attualmente in fondo di proprietà del comune di Lavello.

Nessun commento :

Posta un commento