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martedì 5 maggio 2015

L'Anonimo Del Sublime. Il primo testo di critica letteraria della storia

di Carlo Maria Nardiello


Il trattato Del Sublime, il più celebre scritto di retorica a noi giunto dall’antichità, ancora oggi non gode di una paternità universalmente riconosciuta. Una certa unanimità di pensiero è stata raggiunta circa la datazione dell’opera, ovvero il I sec. d.C., grazie ad una serie di dati interni, di citazioni, di riferimenti, e soprattutto grazie alla conservazione dell’ultimo capitolo, che nonostante alcune lacune restituisce al lettore due posizioni differenti sul dibattito circa la corruzione dell’eloquenza. 
L’opuscolo si segnala per essere la prima, vera opera di critica letteraria, in cui l’acume critico, la finezza di gusto e la sensibilità autoriale tocca vette mai raggiunte prima, tanto da essere ripreso a distanza di secoli dall’estetica preromantica. 
Al centro dell’ultimo capitolo del trattato è il difficile rapporto tra intellettuali e potere: rapporto nel quale il dispotico esercizio di quest’ultimo finisce col soffocare la libertà d’espressione, lievito indispensabile allo sviluppo dell’oratoria e delle lettere. Per rispondere ad un quesito così delicato che poggia su un terreno infido (nel I sec. parlare di regimi assolutistici mortificatori di ingegni poteva risultare quantomeno pericoloso!) l’autore introduce, saggiamente, un nuovo personaggio, “uno della cerchia dei filosofi”. Costui si stupisce di come ottimi ingegni non appartengano più alla realtà contemporanea, e presta il proprio orecchio alla tesi comune secondo la quale:



bisognerà dare credito a quella così diffusa opinione secondo la quale la vera nutrice della grandezza è la democrazia, perché solo con essa fiorirono e insieme morirono i grandi scrittori? Infatti – precisava – la libertà sa allevare i pensieri dei grandi ingegni, sa ispirarli e destarli alla competizione reciproca e al desiderio di primeggiare. Inoltre, nei regni democratici, la possibilità di fare carriera pubblica punge l’orgoglio degli oratori e quasi lo affila in modo che, pienamente libero, si distingua nelle pratiche che lo impegnano. Noi invece – aggiungeva – diamo l’impressione di essere stati bendati con le stesse consuetudini e con gli stessi sistemi fin da quando le nostre menti erano ancora tenere sicché, senza avere mai gustato quella bellissima e nobilissima sorgiva del linguaggio che è la libertà, non sappiamo riuscire altro che sublimi adulatori. (trad. di G. Lombardo).

La communis opinio viene presentata in tutta la sua durezza, senza mezzi termini: la responsabilità della penuria di grandi ingegni letterari viene ascritta alla scomparsa della democrazia, l’unico terreno dove eloquenza, grandezza e libertà possono proliferare. È la prima volta che in un trattato del I sec. d.C. appare in tutta la sua concretezza il problema della scomparsa della democrazia, della servitù che ne deriva e che inevitabilmente finisce per reprimere e mortificare la libertà, prima di tutto la libertà di parola. La nuova realtà dell’impero, finemente descritta da Tacito nelle sue opere storiche, qui viene interpretata come foriera di una lunga schiera di asserviti, di schiavi che mai potranno ambire ad indossare le vesti dell’oratore, essendo questi tangibilmente privi di valori. La gabbia che si costruisce attorno alle generazioni nate sotto il vessillo dell’impero diventa, metaforicamente, gabbia e carcere dell’anima, condannata a perire sotto la figura del cattivo princeps
La risposta dell’autore del trattato a queste considerazioni è molto cauta e si sposta sul terreno etico: egli afferma stoicamente che la vera schiavitù è quella dell’anima, tiranneggiata dal deprecabile vizio della ricchezza e dell’indolenza. La prima spinge l’uomo a fare solo ciò che può procurargli gloria, la seconda dà vita a violenza e sfrontatezza, così da far perdere la disposizione alla grandezza, al sublime. Si dirime in tal modo il principe da ogni responsabilità. La conclusione è amara, sconfortante e per certi tratti eccessivamente sottile, tanto da far sorgere il sospetto che il vero propugnatore delle idee attribuite al filosofo sia l’autore medesimo, e che le argomentazioni contrarie altro non siano se non uno schermo per stornare pericolose conseguenze della tesi sovversiva, che attribuiva all’assolutismo imperiale un ruolo determinante nella crisi dell’eloquenza.

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