L’artista annunciato nella piccola iscrizione dell’opera trecentesca, fa riferimento ad un tale Roberto d’Oderisio, una figura artistica già citata in un documento della cancelleria napoletana del 1330 come “familiaris et magister pictor noster” su istituzione di Roberto I d’Angiò. Questa testimonianza esprime con chiarezza la promozione sociale dell’artista nel mondo della nobiltà tardomedievale in veste di puro “familiare” della corte angioina. Ascesa sociale, quindi, ma anche concreto ruolo di artista, viste le maestose doti compositive.
L’acme pittorica del magister napoletano appartiene ad un tardo Trecento, in cui si inserisce anche la scarsamente nota Crocifissione ebolitana. Dopo l’intervento nella Cappella Major di Castel Nuovo a Napoli, il maestro di lezione giottesca rivela un linguaggio incline alle scene di Passione, tra cui predilige il “Cristo sulla Croce”. Risultati del tutto rivelativi si esprimono difatti sulla commissione nel Convento di San Francesco ad Eboli (SA), in un periodo di realizzazione tra il 1350 ed il 1360 ca.
Nelle oscillazioni documentarie e nella precarietà di giuste attribuzioni, la critica di inizio novecento affermò la Crocifissione di ascendenza cavalliniana, ma le affinità giottesche rivendicano giuste indicazioni ed analogie iconografiche del tutto significanti atte a chiarirne la lezione: il tema della Crocifissione di Berlino, e quella di Strasburgo, ad esempio, in cui i gruppi astanti vengono tagliati ed inquadrati in modo da sembrare maggiormente affollati; il rapido soccorso degli angeli dai volti urlanti e straziati si riconduce al più noto Compianto sul Cristo morto della Cappella Scrovegni.
Il gusto del dramma viene enfatizzato da Roberto sullo schema dello svenimento della Vergine e sui volti di Giovanni e della Maddalena, marcati da un incisivo tono chiaroscurale. Il profuso decorativismo si evidenzia nelle ricche punzonature delle aureole (a motivi diversi tra loro) e nei panneggi fortemente animati. Il Cristo come trofeo del dolore, si presenta nella solida morte sul legno nero della croce. La figura in atto di devozione ai piedi dello scenario potrebbe essere interpretata come un committente appartenente allo stesso ordine del Complesso Conventuale.
La cornice della tavola potrebbe riferire una prima appartenenza dell’opera ad un polittico (di cui poi è stata quasi sicuramente resecata la cimasa). L’iscrizione posta sull’angolo sinistro recita fieramente la paternità artistica del maestro: “HOC OPUS PINSIT ROBERTUS DE ODORISIO DE NEAPOLI”. L’opera appartiene tuttora alla quadreria del Museo Diocesano di Salerno (attualmente inagibile per lavori di manutenzione). Attualmente la tavola campeggia in una delle sale dell’evento “Giotto e il Trecento” presso il Vittoriano a Roma sino al 29 Giugno 2009.
L’acme pittorica del magister napoletano appartiene ad un tardo Trecento, in cui si inserisce anche la scarsamente nota Crocifissione ebolitana. Dopo l’intervento nella Cappella Major di Castel Nuovo a Napoli, il maestro di lezione giottesca rivela un linguaggio incline alle scene di Passione, tra cui predilige il “Cristo sulla Croce”. Risultati del tutto rivelativi si esprimono difatti sulla commissione nel Convento di San Francesco ad Eboli (SA), in un periodo di realizzazione tra il 1350 ed il 1360 ca.
Nelle oscillazioni documentarie e nella precarietà di giuste attribuzioni, la critica di inizio novecento affermò la Crocifissione di ascendenza cavalliniana, ma le affinità giottesche rivendicano giuste indicazioni ed analogie iconografiche del tutto significanti atte a chiarirne la lezione: il tema della Crocifissione di Berlino, e quella di Strasburgo, ad esempio, in cui i gruppi astanti vengono tagliati ed inquadrati in modo da sembrare maggiormente affollati; il rapido soccorso degli angeli dai volti urlanti e straziati si riconduce al più noto Compianto sul Cristo morto della Cappella Scrovegni.
Il gusto del dramma viene enfatizzato da Roberto sullo schema dello svenimento della Vergine e sui volti di Giovanni e della Maddalena, marcati da un incisivo tono chiaroscurale. Il profuso decorativismo si evidenzia nelle ricche punzonature delle aureole (a motivi diversi tra loro) e nei panneggi fortemente animati. Il Cristo come trofeo del dolore, si presenta nella solida morte sul legno nero della croce. La figura in atto di devozione ai piedi dello scenario potrebbe essere interpretata come un committente appartenente allo stesso ordine del Complesso Conventuale.
La cornice della tavola potrebbe riferire una prima appartenenza dell’opera ad un polittico (di cui poi è stata quasi sicuramente resecata la cimasa). L’iscrizione posta sull’angolo sinistro recita fieramente la paternità artistica del maestro: “HOC OPUS PINSIT ROBERTUS DE ODORISIO DE NEAPOLI”. L’opera appartiene tuttora alla quadreria del Museo Diocesano di Salerno (attualmente inagibile per lavori di manutenzione). Attualmente la tavola campeggia in una delle sale dell’evento “Giotto e il Trecento” presso il Vittoriano a Roma sino al 29 Giugno 2009.
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