lunedì 28 febbraio 2011

Artemisia e le altre. Le donne pittrici

di Gianmatteo Funicelli

È risaputo da tutti. Nel passato la figlia femmina (e borghese) o prendeva i voti o attendeva il “buon partito”. La donna nell’arte è ispirazione. Vive al di là della tela e diviene soggetto coinvolto, ma non artefice. “Figura”, ma non “raffigura”. E se la fanciulla in questione cresceva con indole creativa? Se la sua passione era la nobile arte della pittura? Veniva diseredata o non riconosciuta come “legittima”? No. Questo non nel Seicento, epoca in cui nel vasto panorama artistico italiano l’apprendistato presso un “grande” veniva impartito anche alle giovani talentuose dalle vesti lunghe. E non erano pochi i casi. Fede Galizia, ad esempio, si cimentava (e con risultati notevoli) alla realizzazione di nature morte per un pubblico di alta borghesia.
Ma chi erano queste donne virtuose e scevre da pregiudizi, che con passione e testa alta abbandonavano casa, pizzi e merletti per addentrarsi nei rinomati atelier dei dipintori? Quasi tutte figlie di artisti (già di per sé affermati), reclutate e formate da esperti di bottega per entrare a far parte del ricco entourage artistico seicentesco. Donne abbandonate all’estro e all’estasi artistica per esprimere passioni, sentimenti e dimensioni affettive che passano di getto dal cuore al pennello. Del vasto plotone rosa che impugna cavalletto e tavolozza verso il fronte della produzione pittorica barocca si evidenzia Maria Tintoretto, figlia del grande pittore veneziano, come pure la già citata Fede Galizia, figlia di Niccolò Renieri, o Chiara Varotari che vanta di avere come padre il Padovanino.
Tra tutte primeggia, per la qualità espressiva del suo “caravaggismo riberesco” e la fortuna critica che rivestì negli anni, Artemisia Gentileschi. Figlia di Orazio (grande contemporaneo del Caravaggio e affermato “tenebrista”), l’artista nasce nel clima culturale di una Roma di fine ‘500, dove Caravaggio irradia come linguaggio costituito ed immutabile (1597). Il padre la vuole dapprima per sé nella sua bottega, per poi inserirla nel clima culturale fiorentino, al servizio del granduca. Seguiranno, nella sua attività, un ritorno a Roma, poi nel 1626 è a Napoli, dove risedette sino alla morte, con un breve soggiorno all’estero che la vide allontanarsi sino a Londra, dove il padre era rinomato pittore di corte. Sulle sue tele, a differenza dei lucidi e celestiali soggetti paterni, si denota una voragine di dramma, paura, violenza e tumulti impetuosi che l’accompagnarono in vita già da quindicenne, quando subisce uno stupro che la segnerà per sempre, come pure il successivo matrimonio riparatore, ma a breve termine. Il piano pittorico per la giovane artista si fa cupo, oscuro ed incline al crudo realismo di quel Caravaggio che per lei è uno specchio riflesso. Della Giuditta e Oloferne (la versione fiorentina del 1620), grande macchina pittorica conservata agli Uffizi, poche parole: “dall’oscuro, il bianco riflettore investe il macabro teatro. Va in scena l’orribile supplizio del male: Ira e liberazione sulla sottile e fredda striscia tagliente, che con tenacia infligge. Sul suo ultimo sguardo, l’agonia rosso fuoco, che come lava ardente trabocca, dissemina, ricade dal sanguinante e caldo sfavillio. L’incubo, impetuoso, ritorto, nell’affannoso cubo nero, tace.”

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