Napoli, 1590: un uomo, ingiustamente incriminato, attraversa ammanettato il fulcro cittadino antico, Piazza San Domenico Maggiore. Nel suo tormentoso percorso verso la prigionia, l’uomo volge lo sguardo nei giardini privati dei di Sangro, che proprio lì dimoravano nel loro palazzo signorile, mentre vide ad un tratto il repentino crollo di un muro e, attraverso di esso, l’immagine sacra di una Madonna. Allora il personaggio si promise che, se fosse stata giustamente riconosciuta la sua innocenza, quella stessa Madonna avrebbe da lui ricevuto lampade, un’iscrizione e degno riconoscimento per la sacra azione salvifica. Dell’uomo, le fonti non hanno traccia (leggenda?), ma di lì a poco venne innalzata nel suddetto luogo sacro una piccola cappella, che un personaggio di spicco dei nobili risiedenti, Alessandro di Sangro, patriarca di Alessandria, istituisce come sepolcreto privato, destinato a deporre le nobili spoglie della famiglia, così come recita la lapide sul portale d’ingresso al tempio (1613).
Ma è con Raimondo di Sangro, settimo principe di Sansevero, che il sito ricevette il giusto fervore artistico. Il singolare personaggio, nato nel 1710, pecora nera della famiglia, fu esponente del primo Illuminismo napoletano, profondo conoscitore di arte e cultura, mecenate, editore e uomo insignito delle più alte cariche nobiliari, che a quel tempo costituivano vanto e competizione tra le nobili famiglie. Fu un formidabile inventore e scienziato, aprendo nei salotti napoletani la conoscenza della chimica sperimentata. Ma questo per noi è ovvio, in una capitale borbonica di pieno Illuminismo. Quello che invece maggiormente ci attira di questo personaggio, fu la sua singolare ambiguità, nonché l’alone di mistero che circondano casa Sansevero, cappella inclusa. A partire proprio da quest’ultima, ai tempi del principe, Cappella Sansevero non fu mai aperta al pubblico culto, ma fu ritenuta da sempre un centro di scienze occulte, una loggia massonica, dove la prevalenza misterica della statuaria in marmo racconta simbolismi e segreti non del tutto risolti.
Il Cristo velato, tutt’oggi un simbolo dell’arte napoletana che campeggia sul centro della navata unica del sacrario, fu voluto dal principe per la “cavea” sotterranea del tempio. Fu eseguito dal napoletano Giuseppe Sammartino nel 1753. Si narra che Raimondo di Sangro segregò lo scultore sin quando non terminò la sua opera. Poi fu accecato, affinché non potesse replicare in nessun modo il capolavoro.
Raimondo di Sangro, al secolo “’o princepe diavulo”, fu davvero una mente singolare; la sua fama di mago e scienziato lo condussero dalla razionalità alla pura pazzia in breve tempo: si racconta che uccise venti cardinali, e che con le loro ossa costruì delle seggiole. Le sue invenzioni fecero scalpore: inventò una carta composta da uno strato di seta e l’altro di lana. Sperimentò su corpi umani le sue più disparate ricerche. L’esempio massimo furono le “macchine anatomiche”, ossia due figure umane, un uomo e una donna incinta, probabilmente due suoi servitori, che accuratamente mummificò. Il macabro e inspiegabile procedimento ha voluto che i corpi conservassero solo l’apparato circolatorio, che tutt’oggi risulta una pratica oscura agli studiosi. L’orrendo esperimento basterebbe a definire la personalità di Raimondo, ma questo non basta: il nobile era ossessionato dal desiderio dell’immortalità, praticandosi più volte dei riti magici, facendosi anche rinchiudere in una cassa con dei composti da lui stesso preparati così da accaparrarsi l’eternità, ma la pratica non funzionò mai. La storia di quest’uomo, vissuto tra laboratori, libri e sette segrete, si concluse nel 1771, a seguito delle continue inalazioni delle sostanze chimiche da lui stesso create e che lo tradirono ben presto da quella promettente immortalità con un infarto.
Info: www.museosansevero.it
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