Luogo della morte e del riposo eterno per chi, come tanti, non poteva degnamente custodire le proprie spoglie. Il grande sepolcreto pubblico progettato ed innalzato da Ferdinando Fuga nel 1762, fu voluto in un luogo isolato, così com’era all’epoca l’altura di Poggioreale, sulla zona orientale di Napoli, dove venne installato: fredda, paludosa e avvolta nel silenzio del cielo nero quasi a toccarlo. Nella Napoli di metà Settecento, il grande cimitero del Fuga è il primo ad accogliere le salme più povere della popolazione del Regno. Assieme all’”Albergo dei poveri”, adiacente e complementare al camposanto pubblico, l’idea di Ferdinando IV, l’allora reggente al potere, era quello di provvedere ad una radicale “ghettizzazione” dei corpi e delle anime meno abbienti, che dal suddetto albergo ospitale passavano alla macabra e sistematica eliminazione di massa tramite un’”inquietante fabbrica di sepoltura”. Il raccapricciante, ma doveroso, progetto servì ad eliminare i numerosi cadaveri che venivano gettati nell’Ospedale degli Incurabili, oppure quelli sepolti un po’ dappertutto per le strade periferiche del napoletano, molto spesso causa di pestilente e malattie devastatrici. Fu allora che il Fuga realizzò il grande complesso cimiteriale, in linea alle teorie razionali delle costruzioni illuministiche: un vasto recinto perfettamente quadrangolare, cinto da alte mura. All’interno lo spiazzo a cielo aperto venne così adibito alla corte della morte: 366 fosse comuni. Tutte coperte da una lastra segnata a numero arabo inciso a mano, sono disposte tramite un coerente reticolo geometrico che si imposta sul piano lastricato e ripartito da 360 fosse allineate in numero di diciannove per diciannove file. Le rimanenti sei fosse, invece, erano posizionate nello spazio rettangolare antistante il cortile, sotto l’atrio coperto.
Al di sotto di tutte le cavità, si aprono le relative strutture ipogee, a maglia ortogonale, dove venivano calate le anime “pezzentelle”. Le modalità di inumazione, furono dapprima quelle di “gettare” il defunto a mano, nella sua rispettiva buca, mentre fu poi adottata una macchina per calare la salma nello spazio sottostante, così da adottare una prassi che rispettasse il ritegno dovuto: Il macchinario in ferro ad argano fu un efficace strumento di sepoltura. Venne donato da una nobildonna inglese all’Arciconfraternita di Santa Maria del Popolo degli incurabili, che allora gestiva il complesso funerario. La donna, in un suo soggiorno a Napoli, fu colpita dalla perdita della figlioletta deceduta a causa del devastante colera che si diffuse in tutta l’area partenopea. Rimasta particolarmente scossa dalle rozze pratiche di tumulazione adottate nel cimitero, fece costruire dalla migliore fonderia napoletana questo geniale meccanismo di deposizione, ancora oggi visibile nello spazio interno del santuario funerario, attraverso cui il defunto, adagiato in una bara in ferro, veniva calato verticalmente tramite una carrucola. Quando il feretro toccava l’estremità dello spazio, un meccanismo apriva uno sportellino e il corpo della salma si adagiava così sul fondo, per essere degnamente custodito nei meandri dell’eternità. Oggi, tra l’imminente degrado e il suo fascino popolare, il “Cimitero delle 366 fosse” continua a perpetuare sia il valore storico della Napoli Sacra, sia l’eterna memoria delle sue più povere anime.
Nessun commento :
Posta un commento