di Sonia Gammone
Il Seicento vede fronteggiarsi aspramente due mentalità, da una parte le
posizioni conservatrici della Chiesa, dall’altra le spinte progressiste intorno
alla questione della conoscenza razionale. Considerato il secolo d’oro, il Seicento vede fiorire varie correnti artistiche:
il Naturalismo di Caravaggio e seguaci, il Classicismo del Carracci e degli
emiliani, l’esperienza barocca di Pietro da Cortona, di Bernini e Borromini,
mentre si delinea in maniera autonoma la pittura di genere. Il desiderio
crescente degli artisti di rappresentare realisticamente l’anatomia si scontra
col forte tabù della nudità sacra. Sarà in questo clima pieno di fervore
artistico e contraddizioni che si inserisce la vicenda artistica ed umana di
Artemisia Lomi Gentileschi (1593-1653), figlia di Orazio Gentileschi
(1563-1539), artista pisano dagli iniziali stilemi tardo manieristici, trapiantato
a Roma dal 1585, per collaborare come aiuto nei lavori della Biblioteca Sistina
in Vaticano, amico del Caravaggio. Per una donna del XVII secolo dedicarsi alla
pittura era una scelta piuttosto difficile da attuare in un ambito, quello
dell’arte, nel quale la presenza maschile era cosa universalmente riconosciuta.
Artemisia non fu la sola, ma attorno alla sua figura si è accentuato nel tempo
un interesse crescente legato forse anche alla sua vicenda personale che la
vede suo malgrado protagonista di un processo per stupro. Tuttavia, studi
recenti, concentrando la loro attenzione sulle grandi qualità artistiche e
innovative della Gentileschi, mettono da parte quella visione che troppo a
lungo la storiografia ha cercato di dare anteponendo il lato femminista delle sue opere ai veri
intendimenti dell’artista. Nei suo dipinti le donne sono il soggetto
prediletto, soprattutto le eroine bibliche ma anche i temi più prettamente
sacri, ci rivelano la sue altissime qualità pittoriche. L’opera Susanna e i Vecchioni, riconosciuta
quale sua prima opera autografa, già rivela tutta la lucidità di una grande preparazione
a soli diciassette anni. L’episodio è quello narrato nel Libro di Daniele: la
casta Susanna che viene sorpresa mentre fa il bagno da due anziani signori che
frequentavano la casa del marito e che la sottopongono ad un ricatto. Una
novità è già la presenza nella scena dei soli tre soggetti disposti a piramide,
con Susanna che non fa nulla per nascondere il suo corpo nudo ma tende le mani
come a voler allontanare da sé la molestia dei due. Sotto la guida paterna, pur
rimanendo vicina al quel realismo caravaggesco espresso nel volume dei corpi e
delle vesti, Artemisia guarda anche alle novità portate a Roma da Annibale
Carracci. Dopo gli esordi romani, Artemisia si trasferisce a Firenze. Qui
realizzerà la Conversione della Maddalena,
tema largamente diffuso, rappresentando la santa con uno splendido abito di
seta giallo, scollato così da mostrare appena una spalla e la piega del seno.
In contrasto con l’abito sontuoso un piede nudo che spunta sotto gli ampi
panneggi e le mani, una sul petto e l’altra protesa a schivare uno specchio che
appena si intravede nell’ombra, simboli del proposito di rinuncia. Sulla cornice
dello specchio le parole del Vangelo secondo Luca “OPTIMAN PARTEM ELEGIT”, “ha
scelto la parte migliore”, ovvero la ricerca del Signore. E ancora su un lato
dello schienale della sedia sulla quale è seduta la pittrice ha posto la sua
firma. Altra opera del periodo fiorentino è Giuditta
con la sua ancella in cui la Gentileschi recupera tutte le caratteristiche
proprie della drammatica narrazione caravaggesca. Giuditta ed Abra, la sua
ancella, sono raffigurate da vicino, immerse nell’ombra e illuminate da una
luce che sembra di candela. L’istante raffigurato è quello in cui le due donne
si apprestano a lasciare la tenda di Oloferne dopo averlo ucciso. Giuditta
impugna ancora la spada mentre l’ancella sostiene, come fosse il bucato, la
cesta nella quale è stata deposta la testa mozzata del tiranno. Questa è una
delle sue opere migliori. La tensione del volto di Giuditta, la spada e i
gioielli raffigurati con una cura minuziosa del dettaglio, rendono l’opera
superba. L’ultimo parte della sua vita Artemisia lo passerà a Napoli riconosciuta
ed apprezzata come artista. È in questo periodo che si colloca una parentesi
londinese, dove Artemisia si reca su richiesta del re Carlo I e per raggiungere
il padre. Qui dipinge una Allegoria della
Pittura, considerato un autoritratto,
eseguita secondo i canoni iconografici riconosciuti, ma altamente
innovativa. Qui la Gentileschi conferisce a se stessa gli attributi della
personificazione femminile della Pittura, una delle cinque arti liberali: la
catena d’oro, la maschera pendente che rappresenta l’imitazione, i riccioli
ribelli simbolo della frenesia della creazione artistica, e gli abiti di colore
cangiante che alludono all’abilità del pittore. Questa Allegoria mostra la sua
grande originalità nella disposizione del soggetto nel dipinto: la donna viene
raffigurata di fianco, con il braccio destro ampiamente sollevato per
raggiungere una invisibile tela su cui si concentra tutta la sua attenzione. Le
donne da lei dipinte mostrano sentimenti, paure, angosce, attraverso gesti e
pose, ora dinamici, ora sensuali, ora contemplativi, ed è il coinvolgimento che
queste riescono a creare nello spettatore a rendere la pittura di Artemisia
Gentileschi così emozionante.
Nessun commento :
Posta un commento