mercoledì 2 settembre 2015

Non diuturna esse potest: il dissenso di Tacito verso il potere

di Carlo Maria Nardiello

Lucido testimone di un periodo ambiguo e controverso come il I sec. è Tacito. In un’epoca in cui convivono cortigiani sostenitori dell’impero, delatori senza scrupoli abili nel garantirsi spazi di successo, fieri idealisti pronti all’esilio o addirittura alla morte pur di non voltare le spalle alla libertà e uomini decisi a conservare rispettabilità e correttezza anche sotto la tirannide, Tacito crede di poter trovare un ordine nella ricerca storica. La sua professione di storico prende le mosse sul finire del secolo, nel 98 d.C., con l’Agricola, una biografia che è insieme una laudatio funebris, per proseguire poi con le Historiae e gli Annales, composte nell’ultima parte della vita sotto Traiano e Adriano fino alla morte, attorno al 120 d.C.
I fini che Tacito assegna al genere storiografico sono principalmente due: “tramandare ai posteri il ricordo delle azioni e dei costumi degli uomini illustri” e indagare “i nessi profondi che si instaurano nelle vicende della storia”. Fa da sfondo a questo generale pronunciamento sul senso della storia il drammatico rapporto, molto avvertito dalla società imperiale, tra passato e presente. L’esperienza letteraria è percorsa dal filo rosso del rapporto tra antichi e moderni sin dal Dialogus de oratoribus e trova pieno compimento nelle opere storiche, nelle quali si analizza una realtà ambigua, ambivalente, difficile da tradurre a causa del cambiamento istituzionale avvenuto che ridistribuisce i poli del potere, offusca il senato e mette al centro l’ingombrante figura del principe. Tuttavia, dopo l’età domizianea, per Tacito si assiste al beatissimum saeculum iniziato da Nerva, l’unico in grado di far combaciare principatus ac libertas. Il declino, coinvolgendo anche le istituzioni, rende duro allo storico il compito di cogliere la reale portata degli avvenimenti, viepiù “quando l’inganno è favorito dalla conservazione delle vecchie definizioni istituzionali”, eadem magistratuum vocabula; nuove figure emergono sul panorama sociale: oratori pagati come Eprio e Vibio, intimi di Domiziano, ma anche nuovi reati mai ascoltati prima, come quelli imputati a Cremuzio Cordo. È necessario, in questo clima, crearsi degli spazi di autonomia di pensiero che però non sfocino nell’anarchia (causa di guerre civili in età repubblicana e vana dimostrazione di stoicismo, agli occhi razionali di Tacito): ecco, dunque, il prevalere di un nuovo atteggiamento, l’unico possibile, l’obsequium.

Sappiano coloro che sono soliti ammirare gli atti di illegalità, che anche sotto cattivi principi vi possono essere uomini grandi e che, con l’obbedienza e un giusto equilibrio accompagnati da un’energica attività, si può giungere a toccare quella fama, per la quale divennero celebri molti che, attraverso vie aspre e scoscese, cercarono una morte sensazionale, senza alcun vantaggio per la cosa pubblica. (trad. di B. Ceva)

La moderatio di cui Tacito tesse l’elogio è l’unica forma di servizio utile per lo stato che si può attuare, riuscendo in tal modo a non farsi viziare dai cattivi costumi di un tempo che non ha bisogno di eroi, ma di prudentia e fiducia nel futuro. Tacito, superata la fase di Domiziano, arriva ad esaltare l’attuale felicitas temporum, arrivando perfino a sentenziare come “anche la nostra età ha da lasciare ai posteri molti esempi di azioni meritorie e di espressioni dell’ingegno”.
Durante la faticosa opera di ricostruzione e interpretazione storica di vicende così oscure, Tacito perviene ad una scoperta rivoluzionaria per la storia di Roma, che ne cambierà la sorte: si tratta dell’arcanum imperii. Tacito scopre che adesso si può concorrere alla guida dell’impero di Roma anche da fuori, dalle province: è la riscossa dei tanti Marco Apro, Vibio, Marcello della storia di Roma, è la riscossa delle popolazioni d’Italia e delle province. È la fine, in definitiva, della grande tradizione nobiliare di Roma, cresciuta con l’orgoglio delle mitiche discendenze. È importante evidenziare come “restava però lo sconcerto per una rivoluzione conseguente nell’apparato e nell’ideologia del potere che possiamo vedere ora certo noi nei suoi aspetti progressivi, ma non chi ne viveva gli inizi e ricercava i fatti con un apparato tecnico legato al mondo che scompariva”. Agli occhi di Tacito si presenta una realtà difficile da riprodurre fedelmente, infranta in più modi, che rende difficile l’identificazione del cittadino romano con la sua città, vista come aliena.
Per concludere, la condizione dell’uomo di fronte al potere è il più grande lascito dell’esperienza letteraria di Tacito, consapevole che qualsiasi forma di potere “non diuturna esse potest.


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