mercoledì 28 dicembre 2016

L’arte redentiva di Antonio Ligabue

di Carlo Maria Nardiello


Gli scuri e inesplorati fondali dell’Oceano nascondono una quantità di gemme di purissima luce serena e molti fiori nascono per imporporarsi mai visti e sciuparsi nell’aria deserta”. La metafora della Natura assunta da Thomas Gray nasce col preciso intento di celebrare quelle esistenze inabissate nell’oblio, nascoste alla memoria futura e private del dominio pubblico cui avrebbero potuto aspirare se solo il caso e la fortuna avessero reso un servizio giusto a quelle anime. Antonio Ligabue (1899-1965) ha corso questo rischio. E con lui l’arte del Novecento tutta. È solo grazie alla lungimiranza di Andrea Mozzali di Guastalla, pittore e suo amico, e del critico d’arte Luigi Bartolini che le prime opere di Ligabue emergono, come relitti, dalle stanze dei ricoveri psichiatrici in cui l’artista è stato troppe volte internato. El matt (il folle) è il nomignolo con cui nelle campagne lungo il Po viene ribattezzato l’artista, certo “diverso” e “malato”, ma affetto da un malessere in grado di risvegliare l’estasi della Natura. Prima del 1961, l’anno della definitiva investitura di artista contemporaneo grazie alla mostra allestita presso la romana galleria “La Barcaccia”, Ligabue trascina la propria esistenza sotto il peso di una deformità fisica che lo costringe lontano dalla quotidianità di una famiglia, dai consigli di un amico o dai baci di una donna. 
Antonio Ligabue fa propria quella stessa Natura dalla quale si è sentito escluso: nelle sue opere, sinfoniche tavolozze di colori brillanti e sgargianti e vividi, essa è la materia principale. Feroci bestie catturate nell’attimo in cui dimostrano la potenza ferina e l’energia vitale rivivono sulla tela l’indomita passione che certifica la legge del più forte. Tigri, aquile e leopardi sono i prediletti attori dello spettacolo circense messo in atto dal pittore nato a Zurigo, sempre ritratti con un segno deciso, marcato, sicuro. 
Fermezza nel tratto artistico da un lato e infermità mentale e clinica dall’altro. Tale binomio, ricorrente nel panorama artistico, trova corrispondenza nella lunghissima serie di autoritratti firmati da Ligabue. Come gli animali imbalsamati che tanto amava guardare presso il Museo Civico di Reggio Emilia, così l’artista analizza l’anatomia sua propria, esprimendo ogni volta una profonda malinconia e una toccante semplicità. La vena geniale dell’anima e il fuoco celestiale imprigionato nelle mani ruvide e sgraziate del matto della Bassa Reggiana risplendono in tele che replicano all’infinto uno sguardo volto verso un altrove irraggiungibile. Gli occhi suoi sfuggono a quello dello spettatore, sembrano voler indicare una via d’uscita, una possibilità di salvezza, a lui negata e a noi solo suggerita. 
Antonio Ligabue canta con rapimento la delirante esistenza interiore di un uomo solo, orfano di un’umanità impietosa e avversario di se stesso, sempre in guerra per risalire la china di un’esistenza marginale e inospitale. L’arte diventa così redenzione, possibilità di rifuggire dal buio della dimenticanza e capacità di domare il travolgente ritmo della vita. In una resa dei conti circa i propri limiti, Ligabue mette insieme in un’unica collezione il pacchetto valoriale, esistenziale ed esperienziale della Natura e dell’Uomo. 
La resilienza del Matt è la dimostrazione della pervasività dell’arte nella vita di un uomo: non accessoria o strumentale ma coincidente con l’esistenza stessa.



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