di Carlo Maria Nardiello
Alla luce delle più recenti linee interpretative della storiografia sull’età moderna, il 1799 viene riletto quale autentico momento spartiacque tra l’ancien régime e la stagione moderna, specialmente nel Mezzogiorno. Visto come punto di arrivo del riformismo di stampo Settecentesco e come punto di partenza di una nuova stagione politica, l’ultimo anno del XVIII secolo rappresenta l’apoteosi della maturità speculativa di larga parte dell’ intellettualità del Regno di Napoli, definendosi in tal modo come primo snodo del processo risorgimentale italiano.
Con approdo definitivo il giorno di natale nell’anno 1798, l’ammiraglio Orazio Nelson scortò, forte della sua flotta, Ferdinando IV di Borbone, re di Napoli, e la moglie Maria Carolina in Sicilia. Il governo fu affidato, dunque, al vicario regio, già principe di Stromboli, Belmonte Pignatelli, il quale si renderà protagonista dell’ennesima fuga da Napoli (sempre in direzione Sicilia), lasciando il Regno totalmente in balia delle violenze fuori controllo di nobili e filoborbonici. Il 21 gennaio 1799 i giacobini meridionali proclamarono la Repubblica Napoletana “impadronitisi della fortezza di Castel S. Elmo, ove proprio un lucano, l’aviglianese Francesco Paolo Palomba, figlio di Giustiniano, avrebbe innalzato la bandiera repubblicana francese”, sotto la protezione delle spade francesi che due giorni dopo, al seguito del generale Jean-Antoine-Etienne Championnet, fecero l’ingresso trionfale nella capitale del regno. Dietro la spinta delle armate francesi, a questo punto solo la Sicilia rimaneva esclusa dall’orbita d’Oltralpe: infatti sin dalla discesa di Napoleone in Italia risalente al 1796 si diede l’avvio al progetto di costituire in Italia nuove statualità improntate al modello francese. La prima, in ordine di tempo, fu la Repubblica Cispadana (27 dicembre 1796), poi diventata Cisalpina (giugno - luglio 1797), con capitale Milano, a seguito dell’annessione di parte della Lombardia, le province di Bergamo e Brescia (del territorio veneto) e la Valtellina; nello stesso mese di giugno si diede avvio alla Repubblica Ligure, che rese democratica una realtà precedentemente oligarchico – aristocratica. Mentre si deve a uno sviluppo accidentale di natura diplomatica la costituzione della Repubblica Romana (febbraio 1798): la secolare tradizione papale della città di Roma fu in breve rovesciata, questo a dimostrare quanto fosse forte l’impatto del giovane generale corso nella politica italiana, trascinata avanti secondo regole e istituzioni, saldamente ancorate alle tradizioni locali, che sembravano immutabili.
Molto limitata nel tempo e nello spazio, la proclamazione in Napoli della Repubblica costituì da subito l’apice dei sogni dell’intelligentia meridionale (Mario Pagano, Domenico Cirillo, Francesco Conforti, Vincenzo Bruno, solo per citarne taluni) e la Basilicata si inserì pienamente nelle dinamiche politiche derivanti dal centro partenopeo. Il 13 giugno, tuttavia, l’ingresso dell’esercito sanfedista (così passato alla storia per il proprio obiettivo di difendere la Santa Fede) guidato dal cardinale Fabrizio Ruffo, significò la fine di un’esperienza, quella repubblicana, che “per la densità dei contrasti e la ricchezza dei dibattiti che ne segnarono la breve esistenza, segnò una vera frattura politica nella storia italiana, non solo meridionale, e lasciò tracce profonde nella storiografia e nell’immaginario politico dell’Ottocento”, in ciò aiutato anche dalla prospera diffusione del Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli di Vincenzo Cuoco. A questo brillante osservatore si deve la tanto citata formula di “rivoluzione passiva” in merito all’esperienza giacobina di Napoli: secondo lui, il popolo non avrebbe fatto la rivoluzione ma era pronto a riceverla dalle mani dei francesi. Il moderato Cuoco criticò ampiamente l’astrattezza dei giacobini napoletani, ritenendo che non avessero compreso i reali bisogni del popolo.
I più noti patrioti, tra cui Mario Pagano (1748-1799), Vincenzo Russo (1770-1799) ed Eleonora Pimentel Fonseca (1752-1799) furono condannati a morte, come conseguenza della repressione sanfedista e del ritorno della monarchia, in un fase in cui “ottomila processi e oltre cento esecuzioni accompagnarono la conclusione del breve esperimento democratico nel Mezzogiorno e riaprirono la via all’emigrazione politica”.
Le vicende del 1799 a Potenza sono intimamente connesse alla figura del Mons. Giovanni Andrea Serrao,(1731-1799), “un vescovo che pure era stato un pastore premuroso per i poveri, s’era imposto come uomo di cultura e di grande impegno politico e sociale, aperto ai valori della libertà e del riscatto delle popolazioni più povere del Regno” la cui vicenda personale si intrecciò con i problemi del riformismo assolutistico di stampo Settecentesco. Il 3 febbraio, dopo il paese di Tito, fu infatti la volta di Potenza: qui venne istituita la Municipalità democratica e popolare con presidente don Domenico Maria Vignola, “Giudici giuridici D. Rocco Catalano e D. Saverio Vaglio; Membri Padre Cherubino da Potenza, D. Vincenzo Manta, Pasquale Abruzzese, Rocco Napoli, Saverio Mazzola, Rocco Marino e Gerardo d’Angelo (…) Segretario D. Gerardo Cipriani” in piena sintonia con le Istruzioni Generali ai Patriotti del 26 gennaio 1799, che infatti prescriveva “Municipalità che saranno composte da un Presidente, da un Secretario, e da sette membri […]”.
Ma il movimento repubblicano, anche a Potenza, fu rapidamente represso dal partito borbonico che per la restaurazione si avvalse delle bande del cardinale Fabrizio Ruffo, che ad una ad una soffocò nel sangue le tante neo repubbliche.
Il 24 febbraio 1799 il mons. calabrese Serrao fu ucciso mentre, si disse, "nel suo letto pregava e benediceva": la testa infilata su di un palo fu trionfalmente portata per le vie della città. Intanto il colonnello Sciarpa, distaccato da Ruffo dalla sua direttiva principale di marcia piegò sulla città e la prese, senza peraltro abbandonarsi a distruzioni o a saccheggi. Infatti, dopo la caduta di Altamura (4 maggio) fu la volta di Avigliano, Muro, San Fele, Picerno e Potenza. Il 29 maggio il cardinale Ruffo entra nel centro di Melfi: cade, così, sotto le spietate armi sanfediste, la tenace resistenza basilicatese.
Riguardo alla prevedibile fine dell’esperienza repubblicana in Basilicata, appaiono di conforto le parole di D’Andrea: “gli alberi della libertà, in molti paesi, furono innalzati ed abbattuti a causa dei rapidi mutamenti di fronte e di alleanze tra le parti sociali in lotta, sì che la resistenza repubblicana alle massi sanfediste fu più decisa ed eroica là dove le municipalità fecero proprie le istanze delle masse contadine e ciò spiega anche come, proprio in Basilicata, le masse del card. Ruffo trovarono maggiore resistenza nella loro marcia verso la capitale”.
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