di Carlo Maria Nardiello
Formare l’oratore perfetto, che si può avere soltanto quando si realizza in un uomo l’unità tra la capacità di parlare nel migliore dei modi e la capacità di agire nel modo più onesto, senza dimenticare che le virtù sono oggetto dell’etica, ergo della filosofia: è questo l’intento che spinge Quintiliano, il primo educatore stipendiato di Roma, a comporre l’imponente Institutio Oratoria.
Lungo l’interesse pedagogico che percorre l’opera, Quintiliano (ca. 35 – 95 d.C.) si concentra polemicamente sui maestri suoi contemporanei, responsabili della scarsa qualità dell’insegnamento sulla quale si riflette la decadenza dell’oratoria. Egli aveva composto sull’argomento anche il perduto trattato De causis corruptae eloquentiae, del quale è possibile ricostruire la tesi di fondo grazie a riferimenti interni alla sua opera più famosa: l’autore aderisce all’opinione comune attribuendo il fenomeno alla generale decadenza dei costumi. Nell’Institutio, però, compie un balzo interpretativo:
“A dirla tutta, per colpa dei docenti esso [il genere oratorio della declamazione] è sceso così in basso che fra le principali cause della corruzione dell’eloquenza ci sono state l’eccessiva libertà e l’ignoranza dei declamatori; d’altro canto, ciò che per natura è buono, si può usarlo bene. Gli argomenti inventati dovranno dunque essere quanto mai vicini alla realtà, e la declamazione dovrà imitare nella maniera migliore i processi per esercitarsi ai quali è stata inventata. Nelle cause di obbligazioni e interdizioni cercheremo infatti senza successo maghi, pestilenze, oracoli, matrigne più crudeli di quelle delle tragedie e altri elementi ancor più fantastici”. (trad. di S. Corsi)
Per Quintiliano la natura del problema non è esclusivamente di tipo morale ma anche pedagogico: a guidare i maestri non è la competenza bensì l’ignoranza che rischia di trascinare le declamationes (esercizio di per sé buono, sembra suggerire l’autore) in un terreno troppo distante dalla realtà del Foro, analogamente a quanto sostenuto da Encolpio nel Satyricon.
La figura ideale dell’oratore, e la conseguente formazione che viene tratteggiata, cioè di un uomo onesto (vir bonus) e legato alle istituzioni, dotato di una formazione culturale di origine greca e latina ed abile nell’arte del dire (dicendi peritus), affonda le proprie radici nella cultura del periodo repubblicano. Ma in età flavia l’oratore non realizza più la propria dimensione intellettuale nel dibattito politico: la sua funzione nella società corrisponde a quella di un onesto funzionario imperiale. In questo assunto si realizza il grande scarto tra l’oratore repubblicano e l’oratore imperiale: è intorno a questo sviluppo che ruota la questione se analizzata sotto la lente della dimensione politica.
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