Marco Polo, nella sua personale lotta contro l’inferno dei viventi, che chiude le Città Invisibili, illustra al Gran Kan le modalità per non soffrirne e suggerisce di «cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, farlo durare, e dargli spazio».
I caffè letterari, che costellano la mappa dell’intellighenzia che fu, rappresentano oggi il locus amoenus della geografia dell’anima. Essi solidificano la società civile, creano una relazione, inaugurano un nuovo vocabolario: il senso, l’identità di una moderna comunità urbana sono mediati dalla persistenza di luoghi che sono un fatto storico, una memoria artistica, una forma di comunicazione irripetibile, ora più che mai.
Sinonimo di un presente ancorato al passato è il Florian (1720) di Venezia. Qui dove Goldoni ha partorito La bottega del caffè, dove Casanova ha ammaliato nobildonne di mezza Europa, qui dove Canova ha bevuto il suo primo bicerin di caffè insieme con l’amico e fondatore del caffè Floriano Francesconi, qui, sotto i portici delle Procuratie Nuove, tra le tantissime altre trame e storie, è nata la Biennale di Venezia. In un foyer unico al mondo, in una città impercettibile e galleria d’arte da vivere sul filo dell’acqua, vitale e mutevole, nel 1839 Riccardo Selvatico inaugura la Prima Esposizione della Città di Venezia, cioè a dire l’odierna Biennale. Non desta stupore che un evento così rappresentativo per il mondo dell’arte mondiale sia nato all’interno del salotto letterario per eccellenza della Serenissima. In continuità con la propria storia ancora oggi il Florian offre la spalla alla Biennale d’Arte Contemporanea: lo scorso anno, infatti, ha ospitato il più influente fra gli artisti cinesi, Qiu Zhijie. Con la mostra dal titolo So, we’ll go no more a roving Zhijie ha reinterpretato la Sala Cinese tramite l’installazione di specchi con incise frasi e conversazioni di illustri ospiti del Florian, rendendo l’ospite contemporaneo partecipe di quel vocio che un tempo ha riempito la sala. Il titolo dell’evento, citazione esplicita di un componimento di Lord Byron, evoca una delle finalità del caffè letterario in generale: il riposo dello spirito e della mente dalle quotidiane tribolazioni e speculazioni che affastellano la mente del pensatore (sia esso artista, poeta, filosofo, viaggiatore). Il consiglio di interrompere momentaneamente il corso delle passioni per concedersi pienamente alla necessaria pausa è quanto riscontrabile nei versi che seguono:
For the sword outwears its sheath,
And the soul wears out the breast,
And the heart must pause to breathe,
And love itself have rest.
(perché la spada consuma il fodero
e dall’anima il petto è logorato
e il cuore deve aver posa per respirare,
e l’amore riposare).
Il Florian, in un’orgia di aromi e note strappate al presuntuoso Rococò, cerca di ottundere i demoni di un Byron infiammato da una ricerca senza tregua e Zhijie innesca una moltitudine di richiami in pochi metri quadri: Venezia, specchi d’acqua, eco di discorsi impronunciabili, Passato riflesso sul Presente.
Renato Guttuso, Il Caffè Greco (1976) |
La storia di una città millenaria come Roma è scritta non solo da un’infinità di re, imperatori, generali e papi interessati alla conquista del potere, ma anche dai suoi luoghi: vere e proprie quinte sceniche di uno spettacolo a cielo aperto. In epoca moderna la “società della conversazione” ha avvertito l’esigenza di un rasserenante ritrovo comune: su questi presupposti nasce il Caffe Greco della Capitale, cenacolo d’artisti fra i più dotati ed eccelsi dei secoli XIX e XX. Ufficialmente nato nel 1760 (in Italia secondo solo al Florian) per un breve periodo è stato rinominato in “caffè dei tedeschi”, in virtù della dichiarata attrazione da parte di Goethe, Philipp, Tischbein, i fratelli Heinse e del gruppo artistico dei Nazareni per il buen retiro in via Condotti. Steiner ha scritto «l’Europa è i suoi caffè»: tale proposizione acquista maggior senso quando si pensa al processo di internazionalizzazione della cultura contemporanea operato nelle sale del Caffè Greco. Molti dei suoi frequentatori sono habitué anche di altri caffè del Bel Paese, come d’Annunzio, Byron, Stendhal, Canova: lo stesso Guttuso ricorda come «il fascino del luogo nasce anche dalla gente che ci è passata». Catalizzatore, dunque, degli europei uniti e strenuo oppositore dell’omologazione del fatto culturale, presso il Caffè Greco di Roma (e certo arride alla persistenza della migliore tradizione classica l’accostamento di “Greco” e “Roma”!) il 14 gennaio del 1919 viene fondata la Liberissima Università. Avvertita come un’irrinunciabile prerogativa da parte dei frequentatori dell’epoca, il primo articolo di questa istituzione alternativa e parallela recita: «In questa università non ci sono né docenti, né studenti. tutti sono autodidatti».
Grazie allo spessore e alla fama dei suoi più fedeli frequentatori, oggi il Caffè Greco non rappresenta solo il crocevia di un glorioso passato di pittori, filosofi e poeti ma anche un prelibato cameo di collezioni d’arte da far invidia ai maggiori musei del continente, Vecchio e Nuovo, tanto che con Decreto Ministeriale del 27 luglio 1953 esso è vincolato dallo Stato Italiano poiché «costituisce oggi un vario e pregevole esempio di pubblico ritrovo sviluppatosi, attraverso due secoli di vita, per la ininterrotta consuetudine da parte di artisti di ogni paese di frequentare le sue ospitali e raccolte salette, avendo rappresentato in Roma, per circa duecento anni, un centro di vita artistica universalmente noto».
In una babele di segni che si configura in un città millenaria come Roma diventa opportuno, se non obbligatorio, seguire non solo le tracce dell’Impero, dei Cristiani, degli Illuminati, dei Templari, dei Papi e della Dolce Vita ma anche dei luoghi in cui sull’agenda della Storia si son date appuntamento le più educate menti degli ultimi tre secoli: ad esempio il Caffè Greco.
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