di Carlo Maria Nardiello
Firenze, interno delle Giubbe Rosse |
Sull’«Osservatore Veneto», glorioso foglio del tardo illuminismo italiano, Gaspare Gozzi scrive: «Non avrà uomo dabbene praticato una bottega da caffè sei mesi, che uscirà di là nel mondo con quella dottrina alla quale avrà avuto l'animo più inclinato». Tale certezza deriva dalla concezione del Caffè, in specie quello letterario, quale luogo del reale e dell’ideale, officina nella quale il ritrovo è finalizzato non più al bivacco o all’esuberanza alcolica, bensì all’ebrezza derivante dalla connessione tra le menti e mentalità fra le più vigorose e innovatrici. Gli studenti anglosassoni usavano chiamare questo ritrovo Penny University, in virtù del costo del caffè che consentiva di sostarvi l’intero giorno. Ma le Coffee House in Inghilterra, e specularmente in Italia, sono intimamente legate alla nascita di periodici, riviste e giornali sulle cui colonna si alternano argomentazioni politiche, sociali, letterarie e filosofiche. «The Spectator» e «The Tatler» (rispettivamente Lo Spettatore e Il Chiacchierone) conservano in seno al nome la natura e l’origine della scommessa editoriale intrapresa: essi riferiscono del ruolo attivo e passivo degli ospiti dei caffè, dove la riflessione si può sia produrre che incamerare; agli attivisti della parola fa eco il pubblico che in essi vede un’alternativa valida e vincente rispetto alle antiquate università. I contenuti delle accademie, dei salotti aristocratici, dei palazzi storici delle università sono oramai avvertiti come ristagnanti, inattuali, carichi come sono di polverosa erudizione e vacua dottrina. Nelle sobrie ma curate sale dei caffè si respira l’aria profumata della carta fresca di stampa ma anche l’avvolgente e fumosa essenza della bevanda del momento: il caffè per l’appunto. Esso è energetico, salutare, consente di essere presenti a se stessi nelle accese e vivaci discussioni che spesso riempiono la tiepida aria delle salette interne; il caffè è il segno tangibile del Nuovo Mondo, premonitore di spazi da conquistare e conoscenze da acquisire, oltreché da diffondere.
La pregnanza storica di tali ambienti si riflette in un esempio ravvisabile nella Firenze a cavallo tra Otto e Novecento: Le Giubbe Rosse. Sorto nella centralissima Piazza Vittorio (l’attuale Piazza della Repubblica), il caffè fiorentino di fine Ottocento è la culla della sperimentazione attuata in ogni ambito della cultura d’inizio secolo: i leonardiani e vociani Giovanni Papini, Giuseppe Prezzolini, Ardengo Soffici e Giuseppe De Robertis sono habitué dei tavolini del caffè, il cui nome riferisce non già ai garibaldini, come si sarebbe portati a pensare, bensì al colore delle prime giacche indossate dai camerieri. Intere generazioni di giovani scontenti del presente, maldisposti dalla china accettazione della tradizione ottocentesca, affollano gli interni e gli esterni dello storico caffè del capoluogo toscano. Fra gli altri vi sono anche gli irascibili futuristi Umberto Boccioni, Carlo Carrà, Aldo Palazzeschi, Luigi Russolo, guidati da Filippo Tommaso Marinetti, protagonisti di sonore azzuffate, ma anche Dino Campana, Carlo Emilio Gadda, Eugenio Montale, Umberto Saba. Le Giubbe Rosse diviene sede redazionale di alcuni fra i più influenti fogli letterari del periodo, come «Solaria», gli ermetici «Fontespizio» e «Letteratura» con la presenza Carlo Bo e Mario Luzi, «Campo di Marte» di Piero Bigongiari, Alfonso Gatto, Alessandro Parronchi e Vasco Pratolini. Resistente alla censura imposta dal fascismo, la vitalità delle Giubbe mantiene viva l’originaria vocazione, riuscendo in tal modo a garantire uno spazio di formazione e fruizione per tutto il Novecento, dimostrando in tal modo la forza delle idee, quando esse sono il frutto di oculato e fiero pensiero.
Il rito quotidiano del caffè rimanda inevitabilmente a Napoli, città legata alle corone reali, all’andirivieni del porto, al fascino subito da decine e decine di viaggiatori e romantici. Il Caffè Gambrinus della città di Partenope incrocia la verticalità degli ori interni alla circolarità degli spazi esterni, a metà strada tra Piazza Plebiscito, Galleria Umberto e via Toledo. «Una delle più significative espressioni dell'arte napoletana del secolo XIX» (Domenico Morelli) il Gambrinus è stato fondato nel 1860, poco dopo il passaggio di Garibaldi, e nell’arco di breve tempo conquista il palato e la vista di poeti come Gabriele d’Annunzio, Salvatore di Giacomo, Ferdinando Russo, di giornalisti Matilde Serao, del marito Edoardo Scarfoglio, i fondatori del quotidiano «Il Mattino», e poi ancora musicisti, attori, medici (Antonio Cardarelli) e viaggiatori intercettati lungo il cammino del tour italico. Anche il Gambrinus non è visto di buon occhio dal fascismo: come altri caffè letterari, anche questo è reputato luogo insano di antifascisti e reazionari; ma anche altri accidenti come crolli e incendi hanno scritto l’altalenante storia della struttura che fonde mirabilmente lo stile Neoclassico al Liberty.
C’è chi non si arrende e non rimane indifferente dentro e fuori posti intrisi di storica bellezza: a costui è rivolto l’invito ad addentrarsi, e perché no a smarrirsi, in sale e salette traboccanti di fascini antichi e irripetibili.
Napoli, interni del Gambrinus |
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