domenica 11 settembre 2016

Travestimenti osceni e identità negate: Giulietta Marchini e Margaret Keane

di Carlo Maria Nardiello 

Roma, via Tritone numero 8, Giulietta Marchini è nel suo studio, attorniata da numerose tele di incomparabile valore, specchio della sua profondissima e inquieta anima. In questo microcosmo, la giovane artista, con tono dimesso e rassegnato, ripercorre la sua tragica storia: dopo essere stata corteggiata e sedotta, appena diciottenne, da colui il quale sembrava essere tenero e premuroso amante, si ritrova, all’improvviso, ad essere meschinamente truffata e tradita dallo stesso. Questi, pittore austriaco in cerca di fortuna nella “città eterna”, dovendo fare i conti con la propria mediocrità artistica, copia e vende uno dei quadri più scenici e monumentali eseguiti dalla talentuosa pittrice: I Barberi. A Giulietta non verrà mai riconosciuta la maternità dell’opera, il cui “tocco” – data l’evidente maestrìa della tecnica compositiva e l’innegabile perizia nella definizione dei tratti anatomici dei soggetti – risulterà, agli occhi dei sapienti critici e mercanti d’arte come «assolutamente non di mano femminile, bensì puramente maschile».
Il giudizio sessista espresso dai dotti in questione marcherà definitivamente il futuro della pittrice romana, alla quale sarà negata la possibilità di compiere un percorso artistico/esistenziale all’insegna dell’indipendenza e dell’autodeterminazione nell’Italia di metà Ottocento. Per sopravvivere, la donna, si vedrà costretta a fare da prestanome, a ‘vendere’ il suo inesauribile ingegno e la sua disarmante abilità apponendo su ciascuno dei suoi lavori la firma di Nehemiah P. Hoskins, sedicente paesaggista americano che, attraverso quest’indicibile ‘sacrificio’, si ‘conquisterà’ la sua tanto agognata fetta di riconoscimento e di fama.
Nell’inquietante racconto Nehemiah P. Hoskins, Artist, composto nel 1896 dalla scrittrice inglese Marie Corelli, sembrano incontrarsi i ritratti di una fittissima schiera di artiste. Incalcolabile è il numero di pittrici, poetesse, romanziere, musiciste, filosofe che, nel tempo, a causa della dispotica marginalizzazione culturale, sociale e politica subita da parte di una stringente e ricattatoria “dominazione maschile”, hanno dovuto cedere ai dettami imposti dal sistema patriarcale e, loro malgrado, hanno soffocato la propria identità perseverando in atteggiamenti di autoesclusione e di vittimismo.


1986, Tribunale delle Hawaii, Margaret Keane lavora infaticabilmente al cavalletto per dimostrare alla Corte di essere lei, l’unica e vera autrice dei bambini “dai grandi occhi”. Di fronte alla donna siede l’ex marito che, impaurito e tremante, cerca di eseguire lo stesso compito nella vana speranza di scagionarsi dall’accusa di plagio che pende, a giusta ragione, su di lui. E mentre il primo dipinto prende vita mostrando al modo intero l’ennesimo capolavoro, “il candore del nulla” annega sulla tela di Walter Keane trascinandolo, finalmente, nella vergogna e nell’infamia.
Non sarà il risarcimento di 4 milioni di dollari concessi dalla giuria alla pittrice a restituirle una dignità a lungo bistrattata, ma il compiersi di questa liberante epifania grazie alla quale Peggy Doris Hawkins, in arte Margaret D. H. Keane, riscatta il secolare silenzio e la reiterata passività su cui, come lei, milioni di donne hanno costruito la loro fantasmatica storia.
Tim Burton nel biopic dal titolo Big Eyes, uscito nelle sale cinematografiche statunitensi nel dicembre 2014, ha ricostruito le tappe più significative della vita di questa formidabile artista: il suo coraggio nel voler assicurare alla figlia un’esistenza dignitosa con tutte le difficoltà che si presentano ad una donna separata negli anni Cinquanta, il secondo matrimonio con il pittore-plagiario, inizialmente considerato compagno-collega ideale, la reclusione sofferta per più di dieci anni in un claustrofobico studio al fine di garantire ‘onore e gloria’ ad un marito tronfio del proprio machismo, la riabilitazione definitiva.
L’attenzione del regista, comunque, non si è concentrata unicamente sui tanti episodi di violenta meschinità nati dalla famelica prepotenza di Walter Keane; Burton ha inteso insistere sul duro e sofferto processo di autodeterminazione a cui Margaret infine perviene e ne ha colto, con rispettosa delicatezza, le numerose sfumature emotive senza la pretesa di realizzare un ossessivo – e forse arbitrario – scandaglio psicologico della protagonista.
È dagli “enormi occhi” dell’infanzia che parte il primo, disperato – e pur salvifico – tentativo di denuncia dell’artista. Gli infiniti orrori e turbamenti, i molteplici interrogativi addensati nelle pupille dilatate dei piccoli, come in un gioco di specchi, ci impongono di prendere posizione e di reagire alla quotidiana barbarie della sopraffazione.

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