di Carlo Maria Nardiello
Camminare fra le oltre 60 opere di Edward Hopper esposte al Vittoriano di Roma consente al visitatore di ascoltare e fare propria la voce dell’artista nell’attimo in cui questi sembra raccontare il proprio circuito emozionale, derivante dai viaggi e dall’osservazione pacata di una realtà altrimenti ignota.
Colui che voleva semplicemente “rappresentare un raggio di sole posato su un muro” si è spinto oltre nella raffigurazione di una realtà traslata per il tramite di un occhio talvolta indiscreto, spesso solitario, quasi sempre fotografico.
Edward Hopper del giovanile periodo parigino, seguito agli studi accademici, conserverà l’allegro chiacchiericcio delle persone radunate ai tavolini dei caffè e la leggiadra spensieratezza che attiene all’ambito dell’intimità dei singoli, prima ancora che della società tutta.
Tornato nelle metropoli statunitensi, di questa leggerezza umana resterà ben poco: forse solo negli scorci dei nudi femminili segretamente catturati come attraverso lo spioncino di una porta, vero e proprio “mondo di mezzo” tra l’osservatore e il soggetto/oggetto della rappresentazione. È indiscutibile la citazione al modo di Degas di frugare nella quotidianità di donne normali rese eccezionali solo grazie al colore dell’artista vinto dal piacere voyeuristico della curiosità.
Viene comunque da chiedersi: in che modo Hopper è diventato emblematico non di una breve stagione bensì di tutto il Novecento americano?
Certo è che nelle sue opere si riscontra un sapore narrativo altrove impossibile da leggere. Il grado di semplicità e di segretezza fruibile in ogni opera di Hopper, dalle giovanili alle più tarde, consente di calarsi totalmente nella volontà dell’artista di fermarsi difronte all’opera, di chiedersi le ragioni delle scelte operate, di incuriosirsi sulla vita privata dei protagonisti in primo piano. La capacità di raccontare storie senza svelarne la conclusione è ciò che rende Hopper un artista sempre attuale, perciò sempre nuovo e resistente alle tendenziose mode dell’arte, dalle quali si è sempre tenuto cautamente distante.
Edward Hopper cattura senza mai lasciarsi catturare dalle sue stesse trame: il punto di domanda che sorge spontaneo dinanzi ai ritratti borghesi di uomini e donne in ufficio o intenti a godersi il sole di una domenica mattina è la firma esistenziale di un artista semplicemente geniale.
Se a questo concentrato di narrazione sviluppato in pochi centimetri di tela - anziché in centinaia di pagine romanzate - si aggiunge un uso della luce asservito alla propria volontà si coglie il più profondo motivo di attrazione verso ognuna delle opere dell’artista americano. Interni tipicamente borghesi, omologati e quasi assemblati serialmente, sono il naturale palcoscenico di esperienze umane della quotidianità, rubate con fare indiscreto eppure delicate nel silenzio irreale che le avvolge. Il solipsismo di marca hopperiana prende il sopravvento in tali scene, solo apparentemente distinte dalle raffigurazioni di esterni, siano essi naturali o urbani. Anche in questi casi, infatti, l’intangibile segreto custodito dalle donne sul portico di un’abitazione o da un faro spento calato nel verde di una sponda d’acqua rimane l’elemento trionfale e trionfante dell’intero allestimento scenico-narrativo.
Guardare dentro, guardare attraverso, guardare al di là: per Hopper non v’è differenza, nonostante l’accanimento di larga parte della critica ufficiale. Il pittore dipinge l’intimità più inaccessibile dell’uomo del Novecento, rinunciando però a qualsivoglia forma di denuncia o di polemica contro la modernità. E del resto non potrebbe spingersi fino a tanto, essendone egli stesso il cantore più sincero e acuto.
C’è poi il tempo. Mai circostanziato, né racchiuso in brevi attimi irripetibili (come tante volte si è voluta etichettare questa o quella ispirazione artistica) ma un tempo dilatato, privo di riferimenti certi e avvolto in uno spazio parimenti amplificato grazie ad un ripetuto gioco tra un dentro (l’essenza dell’anima) e un fuori (estrinsecazione della fisicità “liquida”).
La realtà di Edward Hopper comunica il prezioso dono del silenzio, troppe volte condannato, e che, invece, andrebbe recuperato a vantaggio di uno scavo interiore che l’artista, ancora oggi, invita a compiere.
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