venerdì 26 giugno 2009

Pellegrino, uno scultore romanico

di Gianmatteo Funicelli

Tra la scultura romanica e la diversità delle sue forme, si avverte maggiormente il ruolo dello scultore in quanto “promotore di messaggi”, in un arte che via via accresce i suoi ritmi e le sue evoluzioni. Il valore di un apparato scultoreo comincia ad essere un “documento pubblico” sulla struttura sacraria, poiché è il popolo stesso desideroso di mediare un linguaggio comunicativo tra la chiesa e il proprio Dio. Nelle iconografie e negli apparati decorativi delle arti europee a riguardo si dovrà però certamente accettare, malgrado, una sensibile decadenza formale la quale conformerà soluzioni di sviluppo di maggiore moderatezza, ma assolutamente non disprezzabili. Concentrando questa nuova chiave di lettura alla sola materia plastica, si potrà definire il Romanico come un “momento di prolificazione decorativa”, dove compaiono segni, scenari, bassorilievi inquadrati sugli architravi che simbolicamente “raccontano”. Questa primitiva civiltà delle forme – dominante in tutta l’epoca romanica soprattutto sui dinamici prodotti del romanico appenninico – ci conduce attraverso questo incompleto e sintetico punto introduttivo sulle soluzioni decorative della scultura campana in un periodo però protratto verso la piena maturità del gusto in questione.
Intorno al XIII secolo il valore scultoreo soprattutto in Campania subisce una nuova fuga di sviluppo. Si vedranno infatti innovazioni di carattere federiciano (dapprima in Puglia) e una maggiore tendenza classicheggiante. E’ nel contesto di questa maturazione che si inquadra la figura di Pellegrino (Peregrinus), il cui nome ci rimanda alle sue applicazioni artistiche riguardanti l’arredo liturgico nella Cattedrale di Sessa Aurunca (Caserta), un ‘caso maggiore’ di architettura romanica campana. Le due figure eminenti del mondo episcopale Pandolfo (1224-1259) e il suo successore Giovanni III (1259-1283), finanzieranno per la struttura le realizzazioni rispettivamente del portico prima e del recinto presbiteriale e di un candelabro pasquale poi. È proprio su quest’ultimo che compare l’identità del magister sculptores, la cui opera “ubique refulxit” (“…risplende in ogni dove…”). La stessa firma del genio scalpellino compare anche sui due parapetti figurati, rimossi poi dalla costruzione di un nuovo ambone, più ristretto e sempre attinente al periodo del Vescovo Giovanni. Su queste strutture si profila l’abile ingegno dell’artista d’intaglio, il quale predilige una tematica strettamente d’età romanica, le Storie di Giona (1224-1259 ca.), in cui si denota d’impatto una forte qualità produttiva protesa sia verso l’ormai diffuso naturalismo gotico, sia sulla memoria dei valori formali e tematici dell’antico (le prime raffigurazioni del profeta Giona ci rimandano difatti ai temi biblici del repertorio iconografico paleocristiano di III sec. d.C.). Il marmista a riguardo, dalla speciale docta manus, fissa testimonianze di sviluppi compositivi che spaziano dalle piccole strutture anatomiche dei corpi leggeri ai minimi espedienti decorativi soprattutto sui capitelli del pergamo. Le testimonianze artistiche continueranno poi ad evolvere, nell’ambiente artistico romanico, caratteri identificativi ma di maggiore rilevanza: l’affermarsi del Gotico.

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