venerdì 9 ottobre 2015

I due Seneca a confronto sul tema dell’eloquenza di Roma

di Carlo Maria Nardiello


Da più parti fatte risalire agli ultimi anni di Augusto, le Controversiae di Seneca il Vecchio costituiscono un ricco patrimonio di testimonianze afferenti alle esercitazioni di grammatica e di retorica cui i giovani allievi romani erano sottoposti. Quest’opera raccoglie una sterminata congerie di situazioni drammatiche, di fronte alle quali il giovane avviato alla cultura e alla pratica del foro avrebbe dovuto prendere la difesa di una delle due parti in campo (a volte di entrambe) e dibattere la causa con efficaci argomentazioni, col compito finale di vincere il dibattito. Nella praefatio ai dieci libri dell’opera, Seneca affronta il problema da un’angolazione ben precisa, mancando tuttavia di fornire al lettore una concreta risposta al quesito:

In secondo luogo, perché potrete così comprendere quanto ogni giorno gl’ingegni si appiattiscano e come, per non so quale iniqua volontà della natura, l’eloquenza sia retrocessa. Tutti i talenti che la facondia romana può opporre o preferire alla superba Grecia fiorirono intorno a Cicerone; tutti gl’ingegni che hanno dato luce alla nostra arte nacquero in quegli anni. Poi siamo andati peggiorando di giorno in giorno, sia per la dissipazione a cui s’è abbandonata l’età nostra – nulla è più pernicioso agl’ingegni della dissipazione – sia perché, scaduto il pregio in cui era tenuta l’arte più bella, ci siamo rivolti a gara a più basse mete, che premi e guadagni hanno reso allettanti e prestigiose; sia infine per un destino la cui legge maligna, perpetua, universale, fa ricadere all’imo tutte le cose, una volta giunte al sommo, più velocemente di come son salite. (trad. di A. Zanon dal Bo)

Qui l’autore si abbandona a un lungo rimpianto verso un’età dai connotati mitici, contraddistinta da una perfezione inarrivabile e non più replicabile che investiva oltre al clima generale, anche i rappresentanti stessi della cultura. Passato idealizzato e modelli inattingibili da una parte, presente avaro e giovani oziosi dall’altro: in un’invettiva pregna di rammarico verso il presente si consuma il giudizio di uno studioso romano che non poca influenza eserciterà sul figlio filosofo. Tuttavia, oltre alla topica degenerazione dei costumi e della gioventù, qui Seneca il Vecchio introduce un tema nuovo: la perdita del vantaggio materiale, riferendosi al fatto che l’oratoria non rappresenta più una sicura carriera di successo per chi vi si appresta; perciò al giovane ambizioso uscito dalle scuole di retorica si prospettano in quel periodo vie più prestigiose, e quindi ricche, ad esempio la strada delle delationes. I delatores non sono figure totalmente nuove nel panorama giudiziario romano, se si considera l’importanza di cui questi avvocati godono già nel periodo repubblicano e successivamente nel primo impero; a loro, in caso di vittoria, era destinato un quarto dei beni delle loro vittime: a queste figure fa sicuramente riferimento Seneca il Vecchio quando scrive di “più basse mete, che premi e guadagni hanno reso allettanti e prestigiose”. 
Il dibattito sulle cause della decadenza oratoria, dunque, si apre con una ricerca dai connotati fortemente moralistici da un lato, dall’altro con una presa di coscienza del cambiamento in corso all’interno del sistema giudiziario romano, col prospettarsi di nuove tipologie di carriere. 


Nelle Epistulae ad Lucilium Seneca (il filosofo), intento ad esortare alla pratica quotidiana della filosofia il suo amico, inserisce il tema di cui stiamo trattando. Nella lettera 114 della sua raccolta l’autore avvia la discussione col tipico stratagemma letterario della domanda indiretta: 

Mi chiedi per quali motivi un genere corrotto di eloquenza si è prodotto in certe epoche […] e perché in un certo momento hanno trovato favore pensieri arditi fino all’inverosimile e in altri sono stati apprezzati motti brevi e oscuri che suggeriscono più che non esprimano. (trad. di G. Monti). 

La risposta è immediata per bocca del filosofo, il quale avvia una lunga riflessione dal tono moraleggiante sul cambiamento collettivo dei ‹mores›. L’incidenza che questi esercitano direttamente sulle capacità linguistiche di una generazione intera rappresentano il fulcro dell’argomentazione, tutta volta ad avvertire di tenersi a debita distanza dai vizi dell’anima:

Tale il parlare degli uomini quale la loro vita. Ora, come c’è una somiglianza tra gli atti… di un individuo, così capita che il linguaggio di un’epoca sia lo specchio dei costumi, quando un popolo ha perso ogni ritegno e si è abbandonato ai piaceri. È un indice di corruzione il linguaggio affettato quando lo si riscontra non in una o due persone, ma è generalmente accettato e gradito. Non è possibile che nell’intelletto non si riflettano le caratteristiche dell’anima. (trad. di. G. Monti)

È una pagina di critica assolutamente rilevante questa. La risposta dello stoico di Cordova rivolge lo sguardo al decadimento morale generalizzato, prima ancora che al decadimento delle lettere, saldando così due poli che da questo momento in poi saranno intimamente legati nella tradizione successiva. La rimpianta eloquenza di un tempo non è, a suo modo di intendere, vittima del cambiamento istituzionale intervenuto nel I sec. d.C. ma di un lento e progressivo rilassamento dei costumi, contagiati dal morbo della languidezza, della raffinatezza, del lusso, insomma dei vizi più deprecabili per un cittadino romano. Se l’anima è corrotta, suggerisce la linea di lettura del filosofo, inevitabilmente investirà l’intelletto, trascinandolo verso una certa mollezza pronta a determinare in negativo il passo lento e pesante del vizioso. Nel turbine infernale che soffoca la sobrietà e disabitua alla perizia del linguaggio non sono trascinati, ammonisce l’autore, solo gli ignoranti, ma anche la classe colta, differente da quelli solo per la scelta dell’abito, non certo per i gusti.
In Seneca, dunque, è totalmente estranea la motivazione storico-politica nel suo contributo alla querelle, similmente al padre, ma il suo chiarimento alla richiesta dell’amico Lucilio si risolve in una invettiva contro coloro i quali (Mecenate in primis) voltano le spalle ad uno stile di vita sano, educato, austero, temperante, vigoroso e sobrio per dedicarsi, in definitiva, ad una pratica quotidiana licenziosa ed effeminata.


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