martedì 22 novembre 2016

YAYOI KUSAMA: Infinity Room e altre stanze

di Carlo Maria Nardiello


Nascere nel 1929 in Giappone e crescere con una madre ultra-tradizionalista può marchiare a vita. Se poi sin da piccoli al nihonga (tipica forma d’arte orientale) si oppone una creatività già molto personale e anti-accademica e se, poco più che ventenne, si riceve da parte di Georgia O’Keefe un forte incoraggiamento a proseguire la propria personalissima sperimentazione artistica, allora non si può voltare le spalle ad un destino praticamente segnato. Questo, e molto altro ancora, è Yayoi Kusama, l’artista più famosa al mondo, che nel 1975 ha scelto il ricovero in un ospedale psichiatrico poco distante dal suo studio e che attualmente espone a Roma, presso il Chiostro del Bramante, l’ultima delle sue Infinity Room: All the Eternal Love I Have for the Pumpkins.
Quando appena ventisettenne Kusama approda a Seattle e poi a New York respira finalmente aria di libertà, di possibilità, di apertura al nuovo e, pur senza riconoscersi in nessuna moda, sa di trovarsi nel posto giusto per dar forma e sostanza alla propria urgenza artistica. Una necessità inestricabilmente radicata nelle viscere di una mente da sempre assediata e perseguitata da allucinazioni, straniamenti, tendenze suicide e manie compulsive che obbligano l’artista a crearsi una valvola di sfogo, o meglio un raccoglitore estraneo da sé nel quale far confluire tutto ciò: ecco l’urgenza del fare artistico di Kusama. Ed ecco spiegata la ragione per la quale l’artista e l’interprete coincidono nella stessa persona. 
Troppe volte affiancata alla Pop Art, al Minimalismo statunitense, all’Arte Femminista, Yayoi Kusama è rimasta per lunghissimo tempo un outsider. Fino a pochi anni fa, quando un rinnovato e imprevisto successo ha fatto schizzare le quotazioni del mercato alle stelle e personali organizzate in giro per il mondo (con presenze di pubblico solitamente destinate alle star del cinema e della musica) hanno stabilito che l’ormai anziana artista dovesse essere un totem del Contemporaneo. Ecco realizzato il sogno, mai sconfessato, di conquistare la fama mondiale da parte della bambina perseguitata dai propri demoni. Culminante consacrazione del “contemporaneismo” più smaccato e marchettaro è la collezione del 2012 di serie limitata Yayoi Kusama for Louis Vuitton commissionata dal creative director della maison del lusso Marc Jacobs. 
Provocatoria e dissacrante sin dai primi successi che risalgono alla serie Infinity Nets, quando su enormi tele la giapponese dipingeva in maniera ripetitiva e ossessiva centinaia di piccoli dots, i pois, a formare reti e reticoli che a loro volta erano punti vicini e lontani di altri mondi possibili, vicini e lontani anch’essi. Una forma di self-oblitaration, come confessato dall’artista stessa, questa ripetizione insistente e maniacale di punti colorati, nell’increscioso tentativo di espellere i tormenti e scacciare i folli impulsi incontrollabili del proprio io tormentato e perseguitato. Una presenza biografica totale all’interno dell’opera d’arte radicalizza l’assenza di un codice di decodifica delle immagini. Il pensiero dominante dell’artista lo si trova espresso dappertutto, se ne coglie perfino il profumo nei colori accesi, spesso bicromie di bianchi e rossi oppure di neri e gialli. 


L’obliterazione operata da Kusama rende illeggibile la “scrittura di senso” tradizionale e rimuove dalla memoria le isterie biografiche di cui è affetta: momentaneamente svuotata e liberata, l’artista rigetta nelle stanze (Infnity Room) macchie di colore a puntini che sono frammenti di vita e vite altrui. Nell’ultimo decennio le stanze di Kusama, poco più di 20 metri quadrati ciascuna, hanno accolto milioni di ospiti. Colei che ha relegato la propria esistenza in una clinica psichiatrica ha aperto le porte dell’intimità più profonda a tutti: fermarsi e affermarsi all’interno di esse comporta la possibilità di scoprire e scoprirsi, sempre diversi e riflessi in specchi reali e mentali, causando una moltiplicazione dell’immagine riflessa labirintica, come solo la mente e la psiche di ciascuno può essere. Dalle stanze si entra e si esce, accolti e poi scacciati, le Stanze Infinite di Kusama si sovrappongono alla dimensione dello Spazio: infinito. 

Fra le prime ad essere realizzate è Phalli’s Field (1965), all’interno della quale multiformi falli plastici bianchi con pois rossi edificavano un corridoio verso le pulsioni e gli appetiti umani. Provocazione mista ad auto-medicazione rendono le Stanze una galassia rassicurante, un accumulo caotico ma calmo all’interno del quale perdersi per poi ritrovarsi, prima soffocando e poi espellendo l’artista dalle proprie ossessioni, identiche solo a se stesse.
Del 2016 è l’ultima istallazione, All the Eternal Love I Have for the Pumpkins: un quadrato magico nel quale lasciarsi rapire per venti secondi in visionaria compagnia delle tanto amate zucche, le quali, grazie alla rifrazione speculare e ad un uso strategico dei led, indicano mille e mille direttrici lungo le quali riconoscere se stessi. Forse un indizio circa la possibilità in dote a ciascuno di noi di intraprendere qualsivoglia percorso vitale ed esperienziale, senza per questo perdersi, ma anzi riconoscendosi sempre dinnanzi allo specchio per realizzare, infine, il proprio cammino di auto-comprensione sfruttando al meglio il poco tempo cui tutti devono prestar attenzione. Una stanza tutta per sé diventa una stanza del sé per tutti: Yayoi Kusama progetta una quarta dimensione nella quale l’immateriale diventa materia infinita.  


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