di Carlo Maria Nardiello
In un’epoca drammaticamente segnata dalla confusione nel tentativo di disegnare il perimetro tra principato e libertà, tra Cesari e senatori, tra aristocrazia e nuovi ceti dirigenti, a Roma molti intellettuali si preoccupano di definire lo “stato di salute” dell’eloquenza contemporanea. La produzione letteraria del I sec. d.C. a Roma ci restituisce un clima di cocente preoccupazione circa le cause che hanno condotto la grande eloquenza repubblicana ad un irreversibile deterioramento. Se si scorrono le pagine dedicate a questo tema si assiste all’evidente disagio vissuto da parte della classe aristocratica di fronte alla realtà nuova, e perciò imprevedibile, che assegna nuovi spazi e nuove funzioni pubbliche all’oratore, nel quadro di una generale riconfigurazione dell’equilibrio tra intellettuale e potere.
La nuova realtà imperiale impone un ripensamento radicale sul ruolo e sull’utilità di un’arte tanto praticata a Roma: qui , infatti, la capacità di persuadere in virtù della parola ha da subito legato il concetto di bonus orator all’uomo politico romano, primo fra tutti Catone. Così Cicerone a proposito della eloquenza di questo:
“E che uomo, dèi buoni! Lascio da parte il cittadino, il senatore, il generale. Qui ci interessa l’oratore: chi è più maestoso di lui nell’elogiare, più aspro nel biasimare, più acuto nel formulare i pensieri, più preciso nell’esposizione e nell’argomentazione?” (trad. di E. Narducci)
Il primo impero romano se da un lato si presenta come “uno dei periodi più eloquenti della storia dell’uomo” (G. Kennedy) dall’altro appare come il momento in cui si parcellizza lo spazio per questa attività in una serie di sottocategorie: l’elogio funebre, l’actio gratiarum, l’oratoria deliberativa. E a proposito di quest’ultima sir Ronald Syme afferma: “i grandi problemi di politica pubblica non furono più dibattuti davanti alle assemblee del popolo romano, ed in Senato essi furono più spesso oggetto di esposizione che di discussione. Diplomazia, maneggi, intrighi si sostituirono all’aperta competizione e alla libera discussione.” E tuttavia lo stesso Syme aggiunge: “ciò non costituì per l’oratore un’irrimediabile calamità. Abilità ed ingegno, se distolti dalla politica, avrebbero potuto concentrarsi tanto più efficacemente nella pratica forense […] i processi per delitto di maiestas, maledizione del sistema imperiale, giunsero come una fortuna per lo sviluppo dell’oratoria”.
L’oratoria, quindi, subisce un restringimento della propria area di azione a causa dell’ingombrante figura del principe, l’unico a poter effettivamente convocare le assemblee popolari e a condizionare la libertà di parola in Senato, secondo molte testimonianze dell’epoca. D’altra parte già sul finire del I sec. d.C. ma ancor più durante tutto il II sec. d.C. il potere imperiale è oramai accettato in un diffuso clima avulso dalle critiche; in quanto alla agognata libertas senatoria fa seguito una più concreta e realistica ricerca di securitas: il senato, e insieme gli studiosi, si accontentano di un’efficiente amministrazione imperiale, garante di pace e prosperità.
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